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domenica 14 aprile 2024

ANNO LITURGICO ED EVANGELIZZAZIONE

 



 

La liturgia, celebrata nel corso dell’Anno liturgico, ha una speciale efficacia per alimentare la fede dei partecipanti. Certamente l’Anno liturgico non può essere strumentalizzato e trasformato in un “programma” di evangelizzazione fatto a tavolino, né in una prima catechesi di iniziazione cristiana, perché l’Anno liturgico è il luogo dove i fedeli già convertiti e credenti, celebriamo il mistero che nutre la nostra fede (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 9). In ogni modo, il ciclo annuale dei tempi e delle festività dell’Anno liturgico contiene in sé stesso una grande forza evangelizzatrice, e può diventare il luogo ideale di una permanente evangelizzazione del popolo di Dio. Infatti, quale scopo ha l’evangelizzazione? Nella prima Lettera ai Corinzi, san Paolo afferma che il Vangelo che egli ha annunciato ed i Corinzi hanno ricevuto è: “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture…” (cf. 1Cor 15,1-5). Si tratta del mistero centrale della storia della nostra salvezza, che noi proclamiamo nel Credo.

Questa storia di salvezza è narrata dalla Bibbia e celebrata dalla liturgia. Quanto la Bibbia racconta dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, la liturgia lo ri-presenta lungo il cammino che dalla prima domenica di Avvento porta all’ultima domenica del Tempo Ordinario, e cioè l’unico piano salvifico di Dio. Nella Bibbia esso si svolge “con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum [DV], n. 2). Secondo i modi ad esso propri l’Anno liturgico ri-narra questo cammino, lo interpreta e lo annuncia realizzato nel mistero di Cristo, “il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (DV, n. 2). L’Anno liturgico conferisce quindi un particolare realismo alla parola di Dio in quanto l’attesta compiuta nel nostro oggi: “La Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Quaresima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti i grandi eventi della storia della salvezza nel ‘oggi’ della sua liturgia” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1095). Conseguentemente “l’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio” (Evangelii gaudium, n.175). Giustamente papa Francesco ha stabilito recentemente che la III Domenica del Tempo ordinario “sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio” (Aperuit illis, n.3). 

 

venerdì 12 aprile 2024

DOMENICA III DI PASQUA (B) – 14 Aprile 2024

 



 

At 3,13-15.17-19; Sal 4; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

 

 

Il filo conduttore delle letture bibliche di questa terza domenica di Pasqua è l’invito a convertirsi per avere il perdono dei peccati. Giovanni Battista, i Precursore, iniziò la sua predicazione con l’invito alla conversione. Così pure Gesù diede inizio alla sua vita pubblica invitando tutti a convertirsi. Lo stesso fanno il Signore risorto e la prima comunità cristiana: intraprendono la loro attività col medesimo annuncio. Infatti, il tema della conversione risuona nelle tre letture di questa domenica: Gesù risorto appare ai discepoli, li istruisce e li manda a predicare a tutti i popoli “la conversione e il perdono dei peccati”; san Pietro, dopo aver guarito lo storpio presso la porta del tempio di Gerusalemme, alla folla che si è radunata attorno a lui annuncia Cristo morto e risuscitato ed esorta tutti a convertirsi e cambiare vita; infine, san Giovanni dopo aver presentato Cristo come nostro “Paraclito (avvocato) presso il Padre” e come “vittima di espiazione per i nostri peccati”, esorta ad “osservare i suoi comandamenti”. Il dono della salvezza si attua attraverso un duplice movimento. Il primo è quello di Dio che si mette in cammino verso noi peccatori attraverso il Figlio. All’azione di Dio che ci giustifica attraverso il Figlio subentra la risposta dell’uomo che si impegna nella conoscenza di Dio. Nella Bibbia si tratta sempre di una conoscenza non astratta o meramente speculativa, ma affettiva, volitiva ed effettiva. Non per nulla il suo criterio di autenticità è l’osservanza dei comandamenti (cf. seconda lettura).

 

La conversione è uno specifico tema pasquale. Infatti, la Pasqua è un nuovo inizio, non solo per Cristo, che dalla morte passa alla vita, ma per tutti coloro che credono in lui. La missione che Gesù affida agli apostoli riguarda tutte le nazioni, anche se debbono iniziare da Gerusalemme. La gloria del Risorto è destinata a riverberarsi su tutti gli uomini come una forza di rinnovamento. Lo stesso Gesù ricorda ai discepoli che la sua morte rientra nel disegno di Dio che lo ha risuscitato dai morti e lo ha costituito fonte di salvezza di tutti noi mediante il perdono dei peccati. Gesù nel mistero della sua Pasqua è come un nuovo Mosè che attraverso la morte-risurrezione libera e salva i credenti in lui donando loro accesso alla libertà e alla vita, guidandoli verso una vita nuova e definitiva. La missione della Chiesa ha quindi la sua sorgente nel Cristo risorto, il suo contenuto nella predicazione della conversione per il perdono dei peccati, e come orizzonte l’umanità intera. La Pasqua ci parla quindi di una conversione che ha come traguardo la pienezza di una vita rinnovata nell’amore del Signore. San Paolo ci ricorda che ciò inizialmente si realizza nel battesimo: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Nona, lettura breve – Rm 6,4). Cristo nella gloria è in permanenza la risurrezione e la vita, per la potenza sempre attuale e sempre attiva dello Spirito e della Gloria del Padre: egli è l’eterna Pasqua.

 

domenica 7 aprile 2024

L’ASSEMBLEA

 



Nel tempio di Gerusalemme i vari membri delle tribù d’Israele si incontravano tra loro, costituendo l’assemblea della comunità fedele. Vorremmo ora proporre il vocabolo ebraico che designa proprio quell’assemblea: qahal, che è sostantivo e verbo, cioè “assemblea, adunanza” e “convocare”, presente 173 volte. L’elemento più suggestivo è, però, da ricercare nell’antica versione greca della Bibbia, detta “dei Settanta” a causa del numero leggendario dei traduttori.

Ora, anche chi non sa il greco, comprenderà il valore del termine da loro usato: ekklêsía, donde il nostro “chiesa”. Qahal- ekklêsía è, perciò, il popolo di Dio che si riunisce soprattutto nell’atto di culto, nella professione della fede e nella carità fraterna. È la comunità fedele che è convocata da Dio per l’incontro e il dialogo orante. Essa, nell’antico Israele, si riuniva in adunanza attorno all’arca dell’alleanza, segno della presenza divina.

Quest’ultima era una cassa di legno d’acacia rivestita d’oro. Sul coperchio una lastra d’oro, sorretta da due cherubini anch’essi d’oro, era considerata lo “sgabello dei piedi del Signore” che scendeva dal cielo per incontrare il suo popolo. L’arca è descritta due volte nel libro dell’Esodo (25,10-20; 37,1-9), si ricorda anche il nome del suo artefice, Besalel, e si descrive pure la modalità del suo uso nelle processioni. Al suo interno erano custodite le due tavole di pietra di Mosè e, secondo la Lettera agli Ebrei (9,4), anche un vasetto di manna e il bastone di comando del sacerdote Aronne, una sorta di scettro rituale.

Il termine qahal diventa quasi una definizione della comunità ebraica, soprattutto mentre è in marcia nel deserto del Sínai. Così, ad esempio, quando gli Israeliti si lamentano per la fame accusano Mosè e Aronne con queste parole: “Ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa assemblea (qahal)” (Es 16,3). Core, Datan e Abiram, tre membri del popolo, ordiscono una rivolta contro Mosè e Aronne, seguiti da un forte gruppo di ribelli. Il loro atto d’accusa è chiaro: “Basta con voi! Tutta la comunità, tutti sono consacrati e il Signore è in mezzo a loro. Perché vi innalzate sopra l’assemblea (qahal) del Signore?” (Nm 16,3).

Quando Mosè giunge alle soglie della terra promessa e sa che la sua missione è compiuta, “pronuncia davanti a tutta l’assemblea (qahal) d’Israele un cantico” d’addio (Es 31,30). Infine, secoli dopo, quando Israele, dopo l’esilio babilonese, ritorna nella sua terra e si costituisce in un nuovo stato retto dal sacerdote Esdra, “un’immensa assemblea (qahal) si riunì attorno a lui, uomini, donne e fanciulli” (Esd 10,1).

Una nota in appendice. Ci si è ormai abituati al titolo ebraico di un libro biblico sapienziale piuttosto originale nel suo messaggio: è il Qohelet, che una volta era chiamato Ecclesiaste sulla base della versione greca che sopra abbiamo spiegato. Sì, quel termine è uno pseudonimo che significa “presidente di un’assemblea (qahal)”, in questo caso di discepoli che lo ascoltano.

 

Fonte: Gianfranco Ravasi, L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp. 129-130.

venerdì 5 aprile 2024

DOMENICA II DI PASQUA (B) – 7 Aprile 2024 o della Divina Misericordia

 



 

At 4,32-35; Sal 117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

 

Il brano del Vangelo di questa domenica è ricco di contenuti. In questa breve riflessione però ci limiteremo ad approfondire il dubbio di san Tommaso. Notiamo anzitutto che al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. In un certo senso, ne è la ri-affermazione. È incontestabile che solo chi crede nella verità può dubitare, anzi: dubitarne. Perché il dubbio è un atteggiamento di ricerca, di esplorazione. Il dubbio, dal quale sant’Agostino fu spesso tormentato, è stato per il santo un passaggio obbligato per approdare alla verità. E così per altri grandi santi. Un noto filosofo britannico del secolo scorso, Bertrand Russell, diceva che “il problema dell’umanità è che gli stupidi sono sempre sicurissimi, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.

Concentrando ora la nostra attenzione sul dubbio dell’apostolo san Tommaso, vediamo che egli non si lascia convincere dalla visione del Risorto che gli altri discepoli hanno avuto. Tommaso vuole personalmente vedere e toccare. Ma quando poi Gesù ricompare per la seconda volta e lui è presente, non si dice che abbia toccato né le mani né il costato trafitto. Al rimprovero di Gesù, un rimprovero pieno di bontà, Tommaso riconosce il Risorto, un riconoscimento pieno, il più alto ed esplicito dell’intero Vangelo: “Il mio Signore e il mio Dio”. La confessione di Tommaso non esprime soltanto il riconoscimento ma l’appartenenza, lo slancio e l’amore: non dice “Signore Dio”, ma “il mio Signore e il mio Dio”.

Tommaso ha conosciuto il dubbio, ma questo non gli ha impedito di giungere ad una fede piena. Nell’esperienza di Tommaso c’è stata però una pretesa dalla quale occorre purificarsi. Gesù gli rimprovera: “Tu hai creduto perché mi hai veduto”, e aggiunge: “Beati quelli che hanno creduto senza avermi veduto”. La normalità della fede riposa sul fondamento dell’ascolto, sul fondamento della testimonianza apostolica.

Gli uomini di oggi, come una volta san Tommaso, vorrebbero vedere e toccare, ma la loro fede è legata alla visibilità della nostra testimonianza, della nostra vita trasformata come quella dei primi cristiani di cui parla il brano degli Atti degli Apostoli proposto come prima lettura: questi cristiani – si dice – erano “un cuore solo e un’anima sola”. Dopo la risurrezione, Gesù è presente nella comunità dei credenti e si rende visibile al mondo attraverso i gesti di carità fraterna di coloro che credono in lui. L’amore non è fatto di parole. Gesù lo aveva detto ai discepoli nel discorso di addio: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

La risurrezione si realizza ed è testimoniata là dove si porta la pace, si libera dal male, si dona speranza, si costruisce un futuro sereno, là dove l’amore si traduce in fatti, là dove il volto misericordioso di Dio si incarna nelle nostre parole e nelle nostre azioni.

 

 

domenica 31 marzo 2024

IL CONCETTO DI TEMPO

 



Per Parmenide il tempo è solo un’illusione figlia del divenire che contrasta con l’immutabilità dell’Essere. Egli considera assurda questa suddivisione che racchiude il presente, istantaneo e fuori dallo scorrere del tempo per definizione, fra un passato che non è, perché è già stato, e un futuro che non è, perché deve ancora essere. Platone risolverà, almeno in parte, accettando il tempo come sequenza di presente, passato, futuro per il solo mondo materiale, imperfetto e corruttibile, mentre al mondo delle forme, essenza perfetta e immutabile delle cose, competerà un eterno presente senza tempo. Nello stesso solco, Aristotele distinguerà fra tempo ciclico, definito dal movimento regolare e perfetto delle sfere celesti, e primo motore immobile collocato nell’eternità, al di fuori del tempo, concezione che dominerà il pensiero occidentale fino agli albori dell’era moderna.

Sarà un pensatore cristiano, Agostino d’Ippona, il primo a interiorizzare con profonda consapevolezza il concetto di tempo: “E’ in te, animo mio, che misuro i tempo”. Egli mette in discussione la realtà di passato, presente e futuro, dal momento che il primo non è più, il terzo non è ancora e anche lo stesso tempo presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo bensì eternità. Ma mentre ne disintegra la sostanza, Agostino recupera il concetto di tempo come successione di stati di coscienza: “Noi percepiamo gli intervalli di tempo”. I tre tempi esistono solo nel nostro animo: “Il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa”.

Interiorizzando il tempo e riducendolo a un’estensione dell’anima, nel IV secolo d.C. Agostino anticipa quello che lo sviluppo delle moderne neuroscienze ci ha fatto capire con una mole impressionante di evidenze: la presenza forte del senso del tempo nella percezione umana, come strumento indispensabile per la sopravvivenza della specie.

 

Fonte: Guido Tonelli, Tempo. Il sogno di uccidere Chrónos, Feltrinelli Editore, Milano 20234, p. 30

 

venerdì 29 marzo 2024

DOMENICA DI PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE – MESSA DEL GIORNO 31 Marzo 2024

 


 


 

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 (oppure: 1Cor 5,6b-8); Gv 20,1-9 (nella messa vespertina: Lc 24,13-35)

 

Il salmo responsoriale è tratto dal Sal 117, un inno di gioia e di vittoria, proclamato in ogni celebrazione eucaristica della settimana pasquale e nella liturgia delle ore di ogni domenica. Il salmo forma parte del “hallel egiziano”, così chiamato perché si cantava specialmente in occasione del memoriale della liberazione degli Israeliti dall’Egitto, durante il sacrifico dell’agnello e durante la cena pasquale. La liturgia della domenica di Pasqua ci ricorda che il nostro agnello pasquale è Cristo (cf. seconda lettura alternativa, sequenza, prefazione pasquale I e antifona alla comunione); nel mistero della sua risurrezione dai morti si compiono tutte le speranze di salvezza dell’umanità: è questo il giorno di Cristo Signore. La risurrezione di Cristo dai morti rappresenta il centro del mistero cristiano, è la base e la sostanza della nostra fede. “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1Cor 15,14). Con queste parole l’apostolo Paolo esprime il cuore di tutto il messaggio cristiano.

 

Nella prima lettura, ascoltiamo san Pietro che annuncia con decisione al popolo il mistero della risurrezione del Signore di cui egli e gli altri apostoli sono testimoni. Nella seconda lettura, san Paolo trae da questo evento le conseguenze per una vita cristiana rinnovata. Ci soffermiamo sul brano evangelico (Gv 20,1-9), che racconta lo stupore di Maria di Màgdala e di Pietro e dell’“altro discepolo, quello che Gesù amava”, dinanzi al sepolcro vuoto. Nel racconto si sottolinea anzitutto l’itinerario di fede di Maria e dei due discepoli nel Cristo risorto, una fede che non si impone come un’evidenza, ma nasce a partire da “segni” che bisogna decifrare. In primo luogo, l’itinerario di fede di Maria di Màgdala, che giunge di buon mattino al sepolcro “quando era ancora buio”. Sembra una donna avvolta nelle tenebre dell’incredulità: appena vede che la pietra è stata tolta, neppure lontanamente è sfiorata dall’idea della risurrezione; subito pensa e corre a dirlo a due discepoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Poi Maria ritorna al sepolcro: vede Gesù, ma lo confonde col giardiniere. Lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome (cf. Gv 20,11-18). Il racconto di Giovanni tende a relativizzare il vedere e, anche, l’esperienza del Gesù terrestre. Non basta vedere il Signore per riconoscerlo; è Lui che deve svelarsi.

 

L’itinerario di fede dei due discepoli ha altre caratteristiche, almeno quello del discepolo che Gesù amava. Simon Pietro guarda stupito, constatando che il corpo non è più nel sepolcro, ma che vi sono rimasti, accuratamente piegati, il lenzuolo e il sudario. L’altro discepolo, invece, vede e crede immediatamente. Non ha bisogno di vedere Gesù per credere. Egli constata che Gesù non è avvolto dai panni funebri. Quindi è vivo. Il racconto evangelico conclude con queste parole: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. È sempre alla luce della Scrittura che si rivela il senso dei segni, eclatanti o modesti, e che lo sguardo si apre alle cose della fede.

         

La risurrezione di Cristo, vertice del mistero della fede, inaugura l’era della salvezza offerta a tutti gli uomini. Chiunque crede nel Risorto riceve fin d’ora il perdono dei peccati, e vive in attesa che il Signore vincitore della morte si manifesti come “giudice dei vivi e dei morti”. Tale è, in tutta la sua ampiezza, l’oggetto della fede apostolica e della celebrazione pasquale.

 

 

domenica 24 marzo 2024

LA CHIESA CHE VIVRÀ

 



 

Vivrà la Chiesa dei piccoli passi fatti in tempo reale e senza inutili e dannosi ritardi.

Vivrà la Chiesa formata al rispetto di ogni vissuto concreto delle persone reali.

Vivrà la Chiesa capace di onorare tutti gli uomini e donne senza mai ridurli a una immagine stereotipata e mortificante per accogliere l’umanità nella sua interezza, complessità e ambiguità.

Vivrà la Chiesa della fede modesta capace di generare la piena fiducia nella libertà di ogni persona senza temere i fallimenti possibili di una vita.

Vivrà la Chiesa della compagnia nei cammini di umanità capace di grandi silenzi per far liberare una parola vera che guarisce.

Vivrà la Chiesa dell’integrazione di ogni razza, di ogni colore, di ogni lingua, di ogni cultura, di ogni percezione in umanità.

Vivrà la Chiesa che sa riconoscere modi diversi di vivere le alleanze tra persone senza sentirsi obbligati ad approvare o in dovere di disapprovare.

Vivrà la Chiesa dell’intelligenza del cuore con cui si cercano di capire i nuovi linguaggi, i nuovi alfabeti e i nuovi mutismi con sentimenti di venerazione del mistero dell’altro e nella consapevolezza che ciò che non si capisce comunque esiste.

Vivrà la Chiesa delle piccole cose, delle piccole comunità, dei mezzi semplici, della marginalità e della modestia gioiosa.

Vivrà la Chiesa capace di spalancare la porta dell’ammirazione per i semi di Vangelo presenti, nelle parole, nei gesti e nelle scelte dei nostri fratelli e sorelle in umanità per continuare ad abbattere “le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata” (Misericordiae Vultus 4).

Vivrà la Chiesa sempre meno romana e sempre più cattolica, apostolica ed escatologica.

 

Fonte: Fratel MichaelDavide, La Chiesa che morirà. L’arte di raccogliere i frammenti per impastare nuovo pane, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp.137-138.